martedì 28 luglio 2009

Il dialetto non è integrazione!


Pare si voglia una scuola che sappia il dialetto!

Vorrei lasciar perdere i commenti e le polemiche che credo nel web si siano già sussegguiti [anzi ne ho la certezza!] per riflettere sul significato di una tale provocazione.

Mio padre ha frequentato una scuola che non gli parlava italiano, ma che attraverso compagni e insegnanti lo ha costretto a imparare il piemontese, anzi forse il torinese, per usarlo nella sua quotidianità ancora di più del suo originario dialetto guardiese.

Io sono cresciuta vergognandomi un po' se per strada i miei genitori usavano interiezioni dialettali che non fossero quelle della regione che ci ospita. [siamo immigrati, appunto!]
La scuola che ho frequentato io parlava esclusivamente italiano.

I ragazzi del fare della mia quotidianità orgogliosamente mescolano dialetto [di qualsiasi provenienza sia], italiano e slang.

Tra le nuove generazioni di insegnanti pochi usano il dialetto comunemente. E a me piace usare piccoli termini curiosi che sappiano arricchire l'italiano là dove non c'è una corrispondenza dell'italiano in grado di competere.

Vivo contaminata dall'Occitania, dal Patois e dal francese che per i Valdesi ha significato nei secoli Libertà.
Ma immersa in queste contaminazioni non ho mai colto inadeguatezza in nessun insegnante o collega che non conoscesse il dialetto [o il Patois, quasi impossibile da imparare se non si è indigeni].

No! la patente di insegnante non si prende con l'esame del Piemontese. Piuttosto ci sarebbe da scandalizzarsi non si conoscesse la storia della Resistenza [di cui tante pagine sono state scritte proprio in Piemonte], ma quella vivaddio fa parte della Storia dell'Italia intera! E' patrimonio comune, per cui nessuno può vantare il monopolio.

Il valore aggiunto per i ragazzi di una tale novità io non lo vedo!
L'amore per la propria terra, la storia del territorio e la ricchezza della cultura e tradizione locale non si construiscono con insegnanti obbligati a "contaminarsi", questa non è integrazione.
Così come una scuola che obbligava i propri studenti a non parlare italiano per potersi sentire parte del gruppo non integrava [era il singolo con le proprie abilità, attitudini e con la propria fibra che si adeguava ad un mondo che in fondo non lo voleva]

Perchè non proporre piuttosto strade alternative e innovative per cercare nuovi modelli di integrazione?




venerdì 24 luglio 2009

L'attualità di uno scritto del '53 riflessioni sulla Formazione Professionale


Per tornare un po' alla storia locale...

Insieme alle preziose carte ricevute qualche giorno fa, ho trovato un fascicolo artigianalmente costruito e dattiloscritto dal titolo L'Apprendistato e firmato da Giulio Cesare Borgna [ingegnere pinerolese e animatore della vita culturale cittadina del passato].

La presentazione è firmata dall'allora sindaco di Pinerolo Prof. Alcide Asvisio.

Si tratta di uno studio sulla formazione professionale e sui ragazzi a partire dall'esperienza del corso comunale di cui ho parlato nel post La formazione professionale in nuce

Ciò che mi ha colpita è l'attualità di quanto scritto, ma anche l'ingenuità con cui spesso Noi del nostro tempo cadiamo vittime dellle leggende e degli stereotipi del passato.

Borgna definisce malattie ormai croniche
il ridursi della mano d'opera specializzata, la decadenza dell'insegnamento e l'impoverimento delle botteghe artigiane e delle piccole industrie...

Siamo nel 1953!

Non sta a me rilevare le analogie con il presente, rischierei di banalizzare, ma la riflessione credo nasca spontanea per tutti.

Borgna dice ancora:
In Italia tutti sono concordi nell'affermare che la gioventù non ha più la preparazione professionale nè la passione per il lavoro delle generazioni passate, o per lo meno difetta di quella esigenza di capacità imposta dall'evoluzione della tecnica produttivistica moderna...

Fa sicuramente sorridere leggere queste parole: le stesse che gli adulti del Nostro presente ripetono salmodiando circa gli adulti di domani [qualcuno direbbe "i corsi e ricorsi"]


Borgna lamenta un'inadeguatezza dell'offerta: troppe scuole prive degli strumenti idonei, troppi allievi per un maestro solo e regole poco chiare da parte del legislatore.

E' cambiato qualcosa?

A pagina 5 della piccola pubblicazione una bella sorpresa:
L'istruzione professionale nella vita sociale ed economica del paese riveste un'importanza non inferiore a quella riguardante l'istruzione publica

Per essere onesti, attraverso un percorso tortuoso e a volte anche poco coerente, ci siamo ritrovati con delle piccole rivoluzioni a partire dalla L.53 per arrivare all'Obbligo di Istruzione.

Almeno nelle leggi e nei decreti c'è la volontà di dare pari dignità.

Ho sempre guardato al passato come un'isola felice per i ragazzi del fare, ho sempre creduto che in qualche modo la società li leggittimasse più di oggi a scegliere percorsi meno legati alla teoria.

Leggere Borgna mi ha dato una visione diversa e critica.

I giovani, i figli di genitori discretamente abbienti, appena dispongono di un po' d'intelligenza e di volontà possono aspirare al conseguimento di un diploma, perchè lo Stato non esita a procurargli gratuitamente professori, aule e materiale didattico. [...] I figli di genitori bisognosi, che desiderano solo essere aiutati per apprendere un buon mestiere, non trovano la stessa comprensione.


Per fortuna quest'ultima citazione corrisponde solo parzialmente a ciò che succede oggi.

Ma forse la questione può essere ribaltata: capita spesso che un ragazzino discretamente bravo alle scuole medie, che ha la passione per il fare venga distolto dalle intezioni dai propri insegnanti, che lo liquidano con un "ma sei sprecato!" [dimenticando le potenzialità della flessibilità dei percorsi e che un elettricista qualificato, potrebbe dignitosamente, con studio e impegno diventare ingegnere]

Oggi non è più un problema relativo alla classe sociale di appartenenza, ma è un problema di cultura!
Non c'è la cultura del fare, perchè ne stiamo perdendo il monopolio.

Borgna cita ripetutamente il suo maestro che è un artigiano, ma ne parla al plurale.
La nostra Italia ha perso il patrimonio degli artigiani e lo sta cedendo a Chi in Italia cerca la sopravvivenza. Questo sminuisce il valore dell'artigianato e di alcune professioni che si stanno perdendo irrimediabilmente.

La soluzione credo sia nel mettersi insieme! La scuola, la formazione professionale e le aziende, con un unico obiettivo indipendentemente dai ragazzi e le loro attitudini, rispettando l'esigenza e il diritto di ognuno di evolvere, crescere e torvare la propria strada.

Nella commissione formata per presiedere i corsi comunali e quindi anche nel pensiero di Borgna, l'dea dell'interazione dei diversi attori era viva e aveva trovato una sua realizzazione.

Non voglio credere che non sia possibile oggi.

Non voglio cedere alla tentazione di concordare con la frase di chiusura al capitolo "Perchè favorire la specializzazione professionale" dove il vecchio Borgna dice:
Tutte queste cose però si scrivono sulla carta e rimangono una speranza, come rimangono con la sola speranza le molte mamme che invocano con commovente insistenza la possibiltà di far apprendere un decoroso mestiere ai propri figli.

No! le mamme devono poter avere certezze...di pari dignità per i propri figli!
[suona demagogico, ma la penso cosi]

giovedì 23 luglio 2009

La scuola che boccia...non ha obiettivi



PENSARE AGLI OBIETTIVI DEI RAGAZZI...SENZA SMETTERE DI INSEGNARE

Io non leggo mai La Stampa...pur essendo piemontese, no, non lo faccio.
Ma ieri sfogliandola al bar ci trovo un interessante articolo di Umberto Veronesi, che mi ha piacevolemente sorpresa.

Sono d'accordo: una scuola che non si accorge cammin facendo che i propri ragazzi non son fatti per il percorso intrapreso è ua scuola che non funziona! Non funziona perchè non ha chiari gli obiettivi.

Un ministro che vanta una scuola rigorista non ha chiari gli obiettivi, ma soprattutto non conosce i protagonisti di quel mondo a cui dovrebbe rivolgersi.

Veronesi dice
Nel mondo di domani, ciò che conterà non sono gli strumenti di cui disporremo, ma le idee che avremo, vale a dire la capacità innovativa e creativa.


La capacità innovativa e creativa è già insita nei ragazzi, ma bisogna costruire quell'autostima che non è tipica dell'adolescente, affinchè tali capacità possano venire alla luce e creare qualcosa di tangibile e visibile.

Spesso i ragazzi hanno tante idee, anche potenzialmente buone. Ciò che sanno fare meno è un'analisi di fattibilità, razionalizzare le fantasie, affinchè possano diventare realtà.

La razionalizzazione è un processo complesso che ha bisogno di essere guidato.
Come dice Veronesi
La scuola dovrebbe essere l'ambiente privilegiato per motivare i giovani alla vita e fornire gli antidoti contro le fughe dalla realtà e il rifiuto del mondo adulto.


Ma se la scuola si fa rigore come può accogliere e aprire alla conoscenza consapevole?

Quello che a me interessa trasmettere ai ragazzi è il senso della vita, il perchè delle scelte, il saper identificare gli obiettivi appunto. Questa è conoscenza consapevole. Fatico a pensare che dietro a dati, numeri, concetti imparati, ma non digeriti ci possa essere consapevolezza.

Per imparare tecnicamente un mestiere c'è tempo: tutta la vita! per imparare a stare al mondo, no! per quello gli adolescenti non hanno tempo. [se poi pensiamo che quello che siamo lo siamo grazie ai primi tre-sei anni di vita, forse si è già in ritardo!]

Il vero obiettivo della scuola è quello di rendere autonomi, di fornire le basi per poter camminare da soli. Ma per fare questo le regole da sole non sono sufficienti...

Qui occorre pensare di nuovo a don Milani...

Occorre ripensare alla cura educativa, a partire dagli obiettivi; curarsi dei ragazzi significa curarsi della società futura, del mondo che verrà. Curarsi dei ragazzi significa accorgersi delle potenzialità che celano gli atteggiamenti provocatori e farli evolvere, curarsi di loro significa porsi delle domande e cercare le risposte insieme.

Una scuola che boccia perchè quella è la regola è una scuola autoreferenziale che non cresce e non fa crescere.

Una scuola che orienta e indica la strada migliore a seconda delle caratteristiche dei ragazzi è una scuola che costruisce. e che si prende cura degli obiettivi dei singoli.

Certo tutto questo deve avvenire senza smettere di insegnare...




mercoledì 22 luglio 2009

La Formazione Professionale in nuce...anzi comunale!


Nel 1952 a Pinerolo succedeva così!





Grazie a Federico Ferro della Società Mutua Pinerolese sono venuta in possesso di alcuni interessanti documenti sulla formazione professionale pinerolese degli anni '50.

Il 29 dicembre del 1952 presso la sala consigliare di Pinerolo si teneva una "pubblica riunione per spiegare ai Sig. Artigiani [...] le finalità e gli scopi del Corso".

E' interessante sfogliare l'intera documentazione che ne reggeva l'organizzazione.

Si trattava di un "CORSO COMUNALE TECNICO PRATICO per l'addestramento professionale dei giovani", presieduto quindi da una Commissione di Controllo della Scuola. La commissione era composta rispettivamente da un rappresentante del Comune di Pinerolo, dell'Ispettorato del Lavoro, dell'Ufficio Regionale del Lavoro, di ciascuna delle Organizzazioni Sindacali e dall'Associazione degli Artigiani contraenti l'accordo, dal Rappresentante Associazione Industriali e della Direzione ONARMO.

Tutti gli attori si erano messi insieme per stabilire le regole.

Il corso [comunale] rispondeva al bando del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale- direzione generale occupazione Interna e migrazione che in oggetto citava:
Istituzione funzionamento di corsi per l'addestramento professionale dei lavoratori disoccupati e in soprannumero e degli apprendisti artigiani.

Ciò che mi ha colpito è come le linee guida proposte nel documento [polveroso] siano molto simili nella sostanza ai bandi odierni. Tanto da sembrare quasi una premessa ai parametri del sistema di Accreditamento.

Le linee guida sono molto puntuali, tanto da entrare nel merito della gestione economica, fino a stabilire il compenso mensile del direttore che è di £. 10.000 per la direzione di un corso, di £.14.000 per due, di £.16.000 per tre o più corsi.

Purtroppo sono poche le informazioni reperibili rispetto alla didattica, se non il riferimento al punto 36, in cui si scrive:
il Direttore del corso può sospendere gli allievi che si rendono indisciplinati e negligenti e che siano ripetutamente assenti dalle lezioni senza giustificato motivo, proponendo successivamente la radiazione dell' Ufficio stesso, sulle proposte di radiazione decide in via definitiva e ne determina la decorrenza, ordinando all'I.N.P.S. di non corrispondere più agli allievi radiati il sussidio straordinario di disoccupazione.


Il monito severo e forse anche eccessivo è giustificato dall'epoca, in cui la formazione professionale era intesa come addestramento e non tanto come come educazione. All' epoca il nemico da contrastare era davvero solo il rischio di disoccupazione, che tuttavia era più un fantasma [l'Italia si apprestava ad accogliere il boom economico].

Oggi le azioni sono volte a combattere la dispersione scolastica, con tutti gli anessi e connessi.

Nel '52 gli allievi da integrare erano i terroni, oggi sono gli stranieri e i drop out.

Nel '52 i problemi relazionali erano tra i ragazzi di campagna e quelli di città, tra i meridionali e i piemontesi [che accoglievano i coetanei del sud parlando loro solo ed esclusivamente in dialetto]; oggi c'è il bullismo, c'è la paura dello straniero e tanto altro che complica e che distoglie dall'obiettivo lavoro., che non è più l'unico punto di approdo.


una classe dell'ONARMO di Pinerolo completa di inseganti

Nei documenti del '52 leggo una volontà di formare la classe operaia per il territorio, oggi si guarda all'Europa.
Lo abbiamo già detto...
Non ci si può esimere dalla corsa verso gli obiettivi di Lisbona.
Tuttavia mi chiedo quanto abbiano perso i percorsi formativi riducendo la partecipazione territoriale.

Trovo tra le preziose carte anche una nota integrativa in cui vengono sottoscritte delle regole di comportamento dai vari artigiani [vengono chiamati così i formatori] ai quali sono asegnati gli allievi
Gli artigiani e gli industriali nei cui laboratori saranno impartite lezioni pratiche, dovranno rispettare le esigenze fisiche e morali degli allievi, richiedendone esclusivamente prestazioni che servano alla preparazione del mestiere, ed assumendosi a loro completo carico le spese del materiale, dell'energia elettrica e consumo macchinario, ed ogni altra derivante dall'insegnamento agli allievi. Ogni infrazione a quanto sopra provocherà l'immediata cessazione dello svolgimento delle lezioni pratiche presso l'azienda interessata.

Sì, abbiamo letto bene...quello che per la formazione professionale moderna è lo stage [quindi un'attività straordinaria], al tempo costituiva la normale attività formativa.

Le lezioni erano di 8 ore per abituare i ragazzi alla giornata lavorativa e di 36 ore settimanali.
Era previsto un trattamento economico per gli allievi. [Ormai andato perduto quasi per tutti i target di utenza, ahimè!]

Le lezioni teoriche prevedevano l'insegnamento di disegno, tecnologia, geometria, merceologia oltre a quello delle materie che saranno tenute necessarie a seconda dei vari Maestri.

I maestri-formatori avevano una buona autonomia didattica radicata sul principio del lavoro e delle regole che lo governano. Le metodologie didattiche spesso sorgevano dal buon senso, dall'esperienza e dalle necessità quotidiane [come banalmente spedire una lettera al proprio insegnante].

Le competenze trasversali non erano sicuramente teorizzate e dichiarate in progetti, ma si trasmettevano grazie al carisma degli artigiani.
In quell'invito [che suona come monito] al rispetto delle esigenze fisiche e morali degli allievi io ci leggo la cura di don Milani.

Nei verbali della Commissione di Controllo della Scuola leggo entusiasmo e amore per il territorio, desiderio di dare professionalità alle proprie aziende, ma soprattutto leggo il substrato della Formazione Porfessionale che viviamo oggi.
Questo mi ha davvero sorpresa!

domenica 19 luglio 2009

[una premessa ] Vorrei una donna saldocarpentiere [2]


In risposta al post Vorrei una donna saldocarpentiere Giuseppe mi manda questa interessante analisi.
Il punto di vista è quello della tradizione protestante.
Mi piace dare voce alle diverse diversità, per questa ragione, nonostante la timidezza dell'autore, ho deciso di pubblicare le pagine che generosamente mi ha inviato via mail.

[Inoltre per chi non lo sapesse le valli pinerolesi sono di tradizione valdese, quindi è anche il campanilismo che mi spinge...]

Cara Lia,

il riferimento finale alla Danimarca mi ha dato da pensare. Possibile che per gli italiani sia così difficile vedere quando le varianti nel modo di concepire la fede hanno conseguenze culturali e sociali di grande portata? Perché la Danimarca è così? Perché lo sono la Svezia, la Germania, l’Olanda, la Norvegia, gli Stati Uniti, la Svizzera, la Finlandia, ecc.? E’ semplice. Perché si tratta di paesi in larga misura protestanti o influenzati dalla comprensione protestante della fede cristiana.



Vorrei perciò dire due cose – da protestante – sul modo in cui il ruolo delle donne è stato interpretato dal Protestantesimo.


UNA PREMESSA NECESSARIA


Per farlo, è utile qualche semplice premessa teologica. Nessuno si spaventi. Si vedrà subito che un paio di presupposti servono per capire “perché” i protestanti, nella storia, hanno fatto alcune cose e non altre.


Ogni tanto sento dire, anche da persone qualificate che vogliono giustificare il fatto che in alcune chiese cristiane le donne non sono ministre di culto, che se Gesù avesse voluto una Chiesa di quel tipo non avrebbe scelto i dodici apostoli solo tra i maschi. Si tratta di un’interpretazione discutibilissima dei passi dei Vangeli che ne parlano. Oggi la gran parte degli esegeti concorda sul punto che in realtà il riferimento ai dodici apostoli ed alla loro missione è un riflesso della tradizionale suddivisione d’Israele nelle dodici tribù del Pentateuco.

L’idea di chi ha redatto i racconti è che i dodici apostoli della “prima cerchia” di Gesù fossero destinati a diffondere l’insegnamento del Messia comunque all’interno d’Israele, non fuori di esso. Era inconcepibile che questi rappresentanti simbolici delle tribù non fossero maschi.

Questi racconti, in altri termini, non possono essere proiettati “in avanti”, verso la storia della Chiesa. Devono essere letti “all’indietro”, in stretto rapporto con la Bibbia ebraica, cioè con quello che noi cristiani chiamiamo Antico Testamento.

Non possono essere considerati in alcun modo discriminanti per un ministero delle donne nelle chiese cristiane. Anzi, questo legame di Gesù con la Bibbia ebraica è oggi un fondamento per la lettura protestante della Bibbia.


Ad ogni modo, chi avesse voglia di capire che cosa facevano le donne nelle chiese delle origini cristiane potrebbe rileggere diverse parti degli Atti degli Apostoli. Ne riscoprirebbe il carattere illuminante.


XVI SECOLO: COSA DICE LA RIFORMA


Ma veniamo alla svolta fondamentale: l’esplosione della Riforma nei primi decenni del XVI secolo. Anche qui bisogna avere presenti almeno alcune cose dal punto di vista teologico.


1) Prima cosa centrale che fu affermata è che il culto cristiano non ha carattere sacrificale. La Cena del Signore, come la chiama la Scrittura, non è la “ripetizione” di un sacrificio che si è compiuto una volta per sempre sulla croce. Non è un “sacrificio” nemmeno in senso simbolico. E’ una mensa comune cui ci invita Gesù in modo diretto, senza mediazioni, nutrendoci lui di persona.


2) In questo senso – ed è questo il secondo punto – Gesù è stato l’ultimo vero “sacerdote”. Con lui il sacerdozio (il “prete”) è stato abolito, perché l’umanità non ha più bisogno di altari e di mediatori autorizzati. Il clero e la gerarchia, con Gesù Cristo, hanno concluso la loro funzione nella storia della salvezza e nelle chiese sono sostituiti da persone che svolgono soltanto funzioni di vario genere, pastori inclusi. Al riguardo, nel 1520, nell’”Appello alla nobiltà cristiana di lingua tedesca”, Lutero proclamò il principio del sacerdozio universale di uomini e donne, cioè di quel “regno di sacerdoti” di cui parla la Scrittura e che dopo Gesù coinvolge, con gli stessi titoli, tutti e tutte e che comprende la vita intera delle persone. Non esiste più nessuna separazione tra vita “secolare” e “sacro”, giacché tutta l’esistenza (lavorativa, affettiva, il tempo libero, il sesso, la famiglia, il denaro) è volta a Gesù e si svolge interamente nella libertà che dobbiamo alla sua opera che ci ha salvati dalla condizione mortale nella quale giaciamo.


3) A queste affermazioni di principio circa l’eguaglianza cristiana di uomini e donne e della necessità di una Chiesa senza sacerdoti si aggiunse la profonda modificazione del sistema dei sacramenti. Da sette, com’erano diventati via via nel sistema intricatissimo costruito nel Medioevo, si tornò ai due originali, ossia a quelli che hanno davvero una specificità cristiana (il battesimo e la Cena del Signore) e che sono stati istituiti in modo diretto da Gesù. Quel che qui c’interessa di più, è che dal XVI secolo per noi protestanti il matrimonio, che pure è un’unione benedetta da Dio, non ha più rilievo di sacramento. Il divorzio, perciò, cominciò già quasi cinquecento anni fa a comparire negli ordinamenti dei paesi che aderivano alla Riforma. Non tarderete a capire le conseguenze pratiche per le donne di una novità del genere!


4) La Riforma protestante ha messo al centro, come fonte prevalente della rivelazione cristiana, una cosa sola. La Bibbia. Scomparso il sistema del clero, chiusi i monasteri, abolite indulgenze, purgatorio, devozioni, litanie, candele, statue, opere religiose, il culto mariano, quello dei santi, dei morti, il diritto canonico, ecc. ecc., il cuore della vita spirituale del protestante è da cinquecento anni la Bibbia.

Ora, dato che non c’è più nessuno autorizzato per status speciale a leggertela, visto che è stata tradotta dagli originali nella tua lingua locale e che “tutto” quello che ti serve come cristiano è lì, ne consegue che – uomo e (soprattutto) donna che tu sia - il tuo dovere è… leggerla. Studiarla, lavorarci sopra, rielaborarla.

E per fare tutte queste cose, affatto semplici, devi essere alfabetizzato, e nemmeno ad un livello così elementare. Uomo e donna. Tutti, senza eccezione alcuna. Nel 1541 Lutero annuncia ai principi tedeschi la necessità dell’istruzione obbligatoria delle donne. Proclama le gioie della vita di coppia come CRISTIANAMENTE superiori a quelle del monaco medievale. Il percorso per la realizzazione delle cose proclamate a parole sarà lunga, ma la strada verso la parità concreta era spianata.


LE CONSEGUENZE


Nei paesi protestanti il tasso d’alfabetizzazione iniziò subito ad alzarsi. L’istruzione superiore diventò in modo abbastanza rapido qualcosa alla portata delle classi piccolo-borghesi.

Le università dei paesi anglosassoni si moltiplicarono ed acquistarono supremazia mondiale. L’Università di Harvard, ad esempio, fu fondata da un pastore riformato, e ne porta il nome…

Le donne godettero anche loro di questi sviluppi.

Al momento dell’unità nazionale italiana (1861), le donne valdesi che nelle povere valli in cui fino a poco prima erano state confinate nell’apartheid esso era pari a circa il 60%.

Nel resto del Piemonte, invece, in specie al di fuori delle città le donne analfabete erano pressoché la regola.


Si pensi che cosa sarebbe stato della storia italiana se quello che sul piano culturale accadde alle valdesi fosse stato l’andamento generale.


Conseguenza quasi lineare dell’istruzione femminile elevata nei paesi in cui da secoli era buona norma leggere la Bibbia fu l’estensione del suffragio elettorale alle donne.

Nuova Zelanda 1893, Australia 1902, Finlandia 1906, Norvegia 1913, Danimarca e Islanda 1915, Canada 1917, Gran Bretagna 1918, Svezia e Olanda 1919, Stati Uniti 1920…


IL PASTORATO DELLE DONNE


Come prevedibile, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

Di fatto, ci vollero secoli perché le affermazioni di principio si trasformassero in realtà.

Anzi, per certi versi all’inizio si creò una situazione paradossale. Nell’Europa meridionale, rimasta cattolica, almeno le donne che si votavano alla separazione dal mondo secolare, che il Protestantesimo rifiuta, avevano mantenuto il ruolo, seppur subordinato, degli ordini religiosi. Dove la Riforma prevalse, invece, si creò una specie di vuoto che si faticò a colmare.

Il sacerdozio universale era affermato, ma alle donne fra il ‘500 ed il ‘700 era – di fatto – impedito o quasi di predicare l’Evangelo dai pulpiti. Vi furono certo parecchi eccezioni: bellissimo resta l’esempio della predicatrice quacchera inglese Margaret Fell, che nel 1665 scrisse “Il diritto delle donne a predicare”, o quello della predicatrice puritana americana Anne Hutchinson, che iniziò la sua attività nel 1634.


Ma le resistenze culturali erano fortissime. La prima donna pastora fu consacrata (nel Protestantesimo non esiste il concetto di “ordinazione”, appunto perché non ci sono sacerdoti) nel 1853 in una chiesa congrezionalista americana. Si chiamava Antoinette Brown Blackwell.



Dopo la Seconda Guerra Mondiale il pastorato femminile nelle chiese protestanti è diventato la regola.

Nella chiesa di cui faccio parte, quella valdese, la prima pastora è stata consacrata nel 1967, ed oggi circa un terzo dei pastori delle piccole chiese protestanti italiane sono donne ed anzi, a presiedere (ovviamente i protestanti non hanno gerarchia) alcune di esse, cioè le federazioni ed unioni di quelle valdesi e metodiste, battiste e luterane ci sono donne.


Non staremo esagerando?!


Per finire: lo scopo di questa nota è quello di far assaggiare a qualcuno che leggerà l’idea, poco usuale per gli italiani, della molteplicità delle espressioni delle chiese cristiane.


Poi, c’è anche il desiderio di far scorgere la sensazione che la fede religiosa è motore di cambiamento sociale e che può essere generatrice di vita concreta. Concretissima.


Tutto può essere, la fede, meno che un elemento del panorama, che uno si ritrova alla nascita, come i monti, la pioggia, il governo o le tasse.


Il mondo è complicato, e il giardino del cristianesimo ricco di fiori più profumati di quanto non possa sembrare!


sabato 18 luglio 2009

Vorrei una donna saldocarpentiere...



Parlare di donne sembra per una donna quasi un obbligo, un dovere.
Non è assolutamente impresa semplice. Gli aspetti da toccare sarebbero talmente tanti che il rischio è quello di perdersi e di diventare scontate, demagogiche e ...femministe!

Ma Farfalle ha un filo conduttore e forse se lo seguo ci scappa una riflessione moderata e costruttiva.

Tema ricorrente e discusso in abbondanza è quello delle donne e il lavoro. Sarebbe facile utilizzare i soliti dati e le solite considerazioni sul fatto che le donne lavorerebbero sì, se non avessero la famiglia e bla bla bla.

Partiamo, tanto per cambiare, dai soliti obiettivi di Lisbona la cui strategia ci dice che
una maggiore e migliore occupazione femminile è essenziale per lo sviluppo dell'economia e delle società europee

chiedendoci un tasso di occupazione femminile del 60% entro il 2010 [in Italia siamo fermi al 46,3%, penultimi in Europa]

Ma quale tipo di formazione hanno le donne italiane?

Pare che se da un lato il livello di scolarizzazione delle donne in Italia è superiore a quello degli uomini, dall'altro ci sia un notevole squilibrio che vede le donne concentrarsi prevalentemente nelle discipline umanistiche.

E che dire dell'offerta formativa, quella che io chiamo del Fare?

Ho già avuto modo di dire che l'immagine della donna straniera nel mondo delle professioni sia ormai rappresentata nell'immaginario collettivo dalla figura di cura [badante, OSS etc]. Questo perchè le donne per secoli hanno incarnato le funzioni di care giver e bread winner [per usare termini cari all'Eurispes].

Ma se diamo un'occhiata ai profili professionali di cui la formazione professionale si avvale per l'offerta dei percorsi, purtroppo notiamo che non c'è stata evoluzione. L'evoluzione non c'è stata soprattutto nei termini dell'orientamento alla scelta. Intendo dire che se un ragazzo viene orientato verso percorsi quali meccanico, tornitore, elettricista...alla ragazza vengono proposti nella migliore delle ipotesi i corsi per cameriere o segretarie, e nella peggiore estetiste e parrucchiere.
E che dire della Regione Campania che qualche anno fa ha finanziato un corso per Veline? [vorrei astenermi dal commentare...]

Nei documenti istituzionali [quelli delle Consigliere di Parità, per intenderci] leggiamo le linee guida per le buone prassi all'insegna della costruzione di una nuova identità di genere . Ogni percorso formativo deve essere accompagnato da un modulo riguardante le pari opportunità. Anche le nostre Ministre Carfagna e Gelmini hanno firmato un protocollo d'intesa in questa direzione.

Tuttavia se nel documento leggo che
iniziative di studio, di confronto e di riflessione con il coinvolgimento di genitori, alunni e docenti sui temi della legalità del contrasto alla violenza e alle discriminazioni possono creare proficuo scambio e ausilio tra le istituzini e le famiglie.

non trovo una parola per quella che secondo me sarebbe la vera rivoluzione [necessaria]: aiutare i ragazzi e le donne a capire davvero chi essi siano, le loro aspirazioni e attitudini, al di là del genere e di che cosa al genere la tradizione ha fornito.

Sarebbe bello [ e divertente] poter entrare in una classe di Operatore di Saldocarpenteria e trovarci qualche femmina tra i soliti maschi.

Forse sta proprio all'offerta gestire il cambiamento...
L'evoluzione potrebbe esserci solo se chi si occupa di orientare ha già acquisito un nuovo concetto di genere. Gli stereotipi si abbattono a partire dalla conoscenza e per conoscenza si intende il tessuto sociale con le sue connessioni e tradizioni, ma anche la conoscenza di sè e dei prorpi talenti che potrebbero anche non corrispondere alla declinazione a cui siamo stati educati.

Forse con una maggiore consapevolezza del potere che le azioni orientative hanno si può pensare di raggiungere la Danimarca che vanta il primo posto in Europa per il tasso di occupazione femminile [73,4%]

Forse come al solito...bisogna correre!

mercoledì 15 luglio 2009

Perchè ieri ero logorroica...


Per Chi ieri, 14 luglio 2009 non avesse capito cosa spingesse a postare e postare

leggete e leggete

informatevi

informatevi

e pensate con la Vostra testa...

ieri ero logorroica...ma avevo i miei motivi!

martedì 14 luglio 2009

Bianca e Nemo erano partigiani!


Nemo stampava i comunicati in clandestinità...

Oggi 14 luglio 2009 il pensiero corre ripetutamente a Bianca e Nemo.

Bianca e Nemo erano partigiani [Brigata Garibaldi], saliti sulle montagne che circondano Pinerolo.

Nemo è il nome di battaglia, ma era anche conosciuto come il Francese, perchè a causa della sua attività politica clandestina era emigrato nella vicina Francia.

Nemo prima di rifugiarsi in montagna si occupava della Stampa alternativa al regime [...]
Nemo nella sua divisione era uno importante...
Bianca [nome di battaglia Lubich] era una staffetta: portava le comunicazioni, le notizie...
Una volta dovette ingoiare il bigliettino che portava perchè fermata dagli squadristi.

Nemo ha continuato a scrivere fino agli ultimi giorni...adeguandosi ai tempi, ha acquistato un computer, ha imparato ad usarlo e ha pubblicato...

Ora Nemo non c'è più, e Bianca tra gli acciacchi si fa Memoria di ciò che è stato

Devo dire altro?

[Nemo non rettificava...la Storia che ci raccontava]

Mettiamo i braghettoni ai nostri blog!?


E' successo tanto tempo fa...

Forse è tempo di evolvere...

La censura stagna...

La rage au coer


DIFENDENDO I DIRITTI...

ANDANDO OLTRE SE STESSI...

con LA RABBIA NEL CUORE!

piccole grandi donne di e per la LIBERTA'

Ingrid Betancourt è tra queste...

Nessun colpevole a Mosca!


QUI DA NOI DEVE ESSERE DIVERSO!

Nessun colpevole a Mosca!

Il 7 ottobre 2006 Anna Poltkovskaja è stata assassinata!

Non si sa da chi [...], ma si sa il perchè!

Lei raccontava cose scomode!

Noi non vogliamo pensare che si possa diventare...Un piccolo angolo d' Inferno

NO!

Anche questo blog, quindi, nei modi che può, Alza la Voce e dice No! al Decreto Alfano!

No rettifica!

Le farfalle...alzano la voce


Oggi niente di nuovo...
Su Farfalle non si leggeranno stranezze e slogan, ma le solite cose delle solite evoluzioni...perchè anche la Libertà è evoluzione, rappresentazione del cambiamento storico e di una società.

Oggi niente di nuovo, solo qualche cosa in più...perchè oggi è 14 luglio 2009!

Oggi alziamo la testa e guardandoci negli occhi diciamo NO RETTIFICA!

Io, non respingo...ma li voglio al Liceo!


UN POST PER GLI ADOLESCENTI STRANIERI
Come più volte in questo Spazio ho voluto sottolineare, l'Unione Europea attraverso le Raccomandazioni, invita gli Stati Membri ad una politica di Integrazione.
Integrare so che significa anche andare incontro.
Più volte mi sono chiesta che cosa davvero rappresenti l'integrazione in uno Stato come il nostro, in questo particolare periodo storico.

Tuttavia voglio soffermarmi sugli aspetti che maggiormente incontrano lo spirito di Farfalle a scuola.

Sempre di più il canale Formazione Professionale diventa scelta prioritaria per i ragazzi stranieri.
Per quanto sia bello e stimolante avere di fronte classi multietniche e colorate il risultato della mia riflessione in merito, non sempre è positivo.

Provo a spiegare le mie ragioni.

Sembra essere diventata una consuetudine [approvata dai più] pensare che un adolescente di origine straniera debba scegliere il fare, privandosi della possibilità di sognare anche il pensare.
E che dire di una donna straniera che non vede altra possibilità che riciclarsi nell'attività di badante? senza nulla togliere alla dignità di tale professione [che noi italiane non facciamo tanto volentieri!].

Sebbene i ragazzi del fare siano la mia passione, mi piace pensare che anche le nuove generazioni ospiti possano riscattare le proprie origini e gli stereotipi che si trascinano da anni.
Ormai nelle classi multietniche accogliamo le seconde generazioni, che in qualche modo sono più ingombranti delle precedenti.

Non voglio addentrarmi in una riflessione sociologica per cui non avrei le competenze, semplicemente provare a buttare sul tavolo qualche spunto di riflessione.

Traduco un po' ingenuamente: le seconde generazioni non sono nè carne e nè pesce!

Le seconde generazioni non hanno un Paese dove tornare, ma anzi sono ormai parte di un tessuto sociale e culturale che pur respingendo le ha accolte. Ma è innegabile che i giovani immigrati o figli di siano vittime della profezia che si autorealizza, perchè percepiti come potenzialmente minacciosi!
Allora si studiano a tavolino azioni di contenimento, anche formativo! Si attivano dei percorsi ad hoc per gli stranieri, dimenticando il vero significato di Integrazione. [Ciò che Maurizio Ambrosini chiama marginalità che si autoalimenta].

La Diversità, ahimè non è ancora considerato un valore aggiunto. Troppo spesso ci si lustra con la definizione di Intercultura, ma a ben guardare si tratta solo di stereotipi!

La Scuola e la Formazione sono chiamate ad essere catalizzatori capaci di unire etnie e nazionalità, ma in maniera attiva e propositiva per promuovere una nuova identità dei ragazzi [stranieri e non iniseme] senza etichette.

Personalmente ho sempre ricevuto molto dalle mescolanze di tradizioni e credenze e i ragazzi stessi riconoscono l'arricchimento che ne deriva.

Sempre ingenuamente mi vien da dire: che siano una portata a scelta [o carne o pesce!] , ma che si individui un canale di integrazione vero e senza ipocrisie!

Se L'Europa ci richiama alla costruzione di nuova identità culturale, partendo da ciò che siamo, non possiamo non considerare gli stranieri, ma soprattutto non pensare ad una classe dirigente futura multietnica.

Per questo...meno stranieri alla Formazione Professionale e più stranieri al Liceo! [è una provocazione, ovviamente...]

domenica 12 luglio 2009

Un buon capo lo deve sapere!




LA PROFESSIONALITA'...SPECCHIO DELL'ANIMA?

Ripensando alle riflessioni fatte l'altra sera sull'identità professionale è stato inevitabile provare a soggettivare un po' l'argomento.

Dimmi che lavoro fai e ti dirò che sei.

Mi rendo conto che l'incipit può sembrare banale e forse per certi versi poco applicabile. Ma ho voglia di pensare per un attimo a chi per sua fortuna si occupa professionalmente di ciò che l'appasiona.

La nostra identità si filtra inevitabilmente anche attraverso ciò che quotidianamente siamo in pubblico. La professionalità è spesso lo specchio di ciò che si è nella complessità dell'essere individui. La motivazione è tanto più alta quanto più la nostra identità è riconosciuta e stimata.

Se si vuole ottenere il meglio dai propri collaboratori bisogna essere bravi a credere in loro, ma ancora di più ad essere strumento per accrescere la loro autostima. Un buon capo in sostanza deve sapersi donare in dimensione didattica, una didattica socratica capace di estrapolare il meglio di ognuno.

La costruzione dell'identità professionale del singolo deve essere vista come un processo che può avere esiti diversi a seconda dei contesti, delle opportunità e ovviamente delle caratteristiche personali. [Bisogna essere bravi a cogliere i momenti e questo è solo l'Individuo che può farlo!]
L'input è dato dalle esperienze pregresse, l'output è il successo che è mediato dal riconoscimento.

Se l'identità professionale è la risultante delle esperienze pregresse il pensiero corre all'importanza dell' apprendimento informale. [Anche in una conversazione alle macchinette del caffè con i colleghi posso acquisire saperi, arricchirmi e quindi costruire la mia rete personale di competenze]

Un buon capo sa riconoscere tutto questo, sa che ci sono strumenti di lavoro alternativi, canali informativi poco istituzionali, che l'apprendimento è sinonimo di miglioramento continuo [anche in versione Iso] e che le relazioni possono essere il fulcro dei risultati. Un buon capo sa che non ci possono essere risultati se non c'è alla base di tutto uno spirito di condivisione tra le parti e per le parti.

Un buon capo tutto questo lo deve sapere!

giovedì 9 luglio 2009

Apprendimento informale...chi me lo riconosce?

Ho già parlato in questo contenitore del concetto di lifelong learning che non può essere scisso dal concetto di apprendimento informale .

Personalmente credo sia importante per ogni singolo individuo prendere coscienza che la propria Formazione [e a volte anche di livello decisamente qualificato] passa anche, e soprattutto attraverso la quotidianità.

Anche occupandomi del blog acquisisco competenze, che saranno spendibili nell' approccio alla vita, ma anche alla mia professionalità.

Dietro l' apprendimento informale stanno tutte quelle declinazioni delle conoscenze che hanno luogo fuori dal sistema scolastico tradizionale.
La Commissione Europea definisce l'apprendimento permanente
qualsiasi attività di apprendimento avviata in qualsiasi momento della vita, volta a migliorare le conoscenze, le capacità e le competenze in una prospettiva personale, civica, sociale e/o occupazionale.


Sono soprattutto le competenze trasversali a nutrirsi delle rielaborazioni informali, quelle competenze che rendono l'individuo autonomo nel diagnosticare, risolvere dei problemi e nel relazionarsi col mondo esterno.
[anche il buon vecchio Vygostskij vedeva l'apprendimento come un processo essenziale per l'individuo che mettendolo in relazione con le persone gli permette di imparare ogni qual volta prenda parte attiva alle pratiche quotidiane]

E come si può non ricordare la necessità di fare rete!

L'apprendimento è frutto delle connessioni, degli intrecci che le reti dei microsistemi che frequentiamo formano. Questa riflessione porta inevitabilmente ad una riflessione successiva: connettersi con il mondo, fare rete e rielaborare i risultati degli intrecci portano dritti al cambiamento [a quell'evoluzione che mi piace tanto!]

E' importante, però riconoscere che alla base di queste evoluzioni c'è sempre un processo soggettivo di acquisizione di competenze, da qui la necessità di poterle certificare!

L'Europa ha cominciato nel 1989 ad affrontare la questione, anche in una accezione di mobilità delle risorse umane, chiedendo ai paesi membri di definire principi comuni per il riconoscimento dell'apprendimento informale.
E' una vera e propria rivoluzione rispetto al vecchio concetto di pezzo di carta all'italiana...

La Francia è arrivata per prima...ma questa è un'altra storia...

Da poco, pochissimo anche Noi ci siamo! [con il Decreto n.174 del 2001 ma attarverso il DGR n.152-3672 2006 per il Piemonte, perchè la certificazione delle competenze è svolta dalle Regioni]

Ma con quanta fatica! [...]
Non c'è una vera e propria condivisione di Principi e Procedure tra i diversi sistemi.
Perchè è la solita storia: le lotte di quartiere! Lotte in cui a rimetterci è solo e unicamente il cittadino, l'allievo...nel suo desiderio di crescita e di evoluzione.

Ma la Società della Conoscenza deve poter contare sulla volontà di superare i quartieri e riconoscere la pari dignità fra i soggetti.

Quanta strada ancora!

lunedì 6 luglio 2009

Fai il formatore? ma chi sei?

FAI IL FORMATORE...QUINDI SEI UN INSEGNANTE!

Con il nuovo corso del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione [ in spirito europeo] il mondo degli Istituti Professionali di Stato e quello della Formazione Professionale Regionale [modello L.53] si dovrebbero integrare, incontrare, o per lo meno uniformare.

Non sarà così! Non potrà essere così, perchè le tradizioni da cui i due sistemi provengono non permettono una commistione di patrimoni. Troppe le differenze che la storia e le riforme hanno prodotto. Troppe le distanze culturali di chi quei due mondi li vive quotidianamente. [Lo dico senza polemica e senza presunzione]. Troppe le differenze di categoria: basta pensare che nella maggior parte degli uffici anagrafici italiani, per la compilazione dello stato professionale sulla carta d'identità gli impiegati traducono la qualifica di formatore con quella di insegnante.
[A me è stato risposto che formatore non esiste!]

Mi è capitato di leggere post di studenti di "Scienze della Formazione" che si chiedono che cosa realmente faccia un formatore. Ma nessuno studente di matematica o lettere che abbia voglia di passare la propria vita dietro una cattedra si chiederebbe mai che cosa un insegnante debba fare [!]

Il problema nasce da un equivoco in cui spesso anche gli stessi operatori della Formazione rischiano di cadere. Il pensiero comune è:
lavoro con le risorse umane, mi occupo della loro istruzione ergo sono un insegnante.

Dimenticando le specificità della propria professione e le differenze che caratterizzano le diversità di approcci e di obiettivi.
[E' tutta questione di obiettivi!]

Non c'è ancora un'interiorizzazione dell'identità professionale, non esiste un'idea concreta di comunità del sistema formativo. Manca un aggregatore!

Ma esiste forte e ben definita una identità culturale della Formazione Professionale, agita con determinazione in contesti formativi di eccellenza [anche di ispirazione religiosa e sociale].
Allora perchè non partire da qui, con meno ingenuità, meno modestia e meno autoreferenzialità?
Perchè non confrontarsi con quel mondo che con maggiore dignità porta l'etichetta di Istruzione?

Perchè non accettare la sfida e iniziare un processo di emancipazione e istituzionalizzazione della professione dal basso?

Anche un confronto attraverso il web può essere un mezzo per acquisire identità!

mercoledì 1 luglio 2009

Correre per l'Economia della Conoscenza...

Verso L'Europa

L'Europa ci ha introdotti all'Economia della Conoscenza, tanto da ridisegnare il profilo del Cittadino Europeo [ o l'auspicato cittadino].

Questa entità superiore chiamata Europa ha posto dei vincoli che ufficialmente ha chiamato raccomandazioni, affinchè si potesse configurare un modello educativo europeo che pone al centro della discussione il concetto di cittadinanza [attiva].

In sostanza si allarga l' idea di Istruzione, come tradizionalmente la si intende in Italia, per andare ad accogliere nel suo contenitore anche la Formazione.
La vera risorsa per l'Europa è quella umana, per questa ragione nessuno può astenersi da quel rischio formativo che porta l'etichetta di lifelong learnig.

Lifelong learning significa abbandonare quello che è il vecchio concetto di lavoro [in quanto specifico], per accogliere il processo che si muove tra il fare, il saper fare e il saper essere [ciò che a me piace chiamare evolvere!]. La natura del sapere è cambiata, per questa ragione non ci si può astenere dal cercare metodologie di apprendimento nuove e sperimentali.

La formazione è il veicolo [europeo appunto] che porta allo sviluppo economico e conseguentemente alla competitività. Quest'ultima necessita sì di un sapere innovativo, ma posto sulle solide basi di un sapere codificato, più tradizionale [forse più italiano]. Allora la parola d'ordine non può che essere integrazione.

Integrazione tra sistemi [Scuola e Formazione], ma anche integrazione tra il mondo produttivo e il mondo della conoscenza. Perchè se L'Europa ha reso strategica la Formazione, non possiamo dimenticare che la formazione è un processo che coinvolge diversi microsistemi. [Qui torna il concetto di Rete].

Rullani ci dice in " Il maestro e la rete, 1999" che
la formazione è il processo attraverso cui una comunità, un territorio, un sistema collettivo di imprese si dotano delle competenze e delle professionalità necessarie a competere con altre comunità, territori, sistemi collettivi.


In realtà i dati ci dicono che il raggiungimento degli obiettivi che L'Europa aveva suggerito ai sistemi educativi degli stati membri sono al di sotto delle aspettative. Siamo ancora lontani dal sistema collettivo e integrato strategico per stare dignitosamente in un'economia globale. [in Italia più che mai!]
Ma il 2010 è vicino! Bisognerebbe correrre...