domenica 3 maggio 2020

La Responsabilità della normalità


In questo periodo di quarantena ho pensato ogni giorno alle mie nonne. Ogni giorno ho pensato a come potessero vivere un momento simile e a come avrebbero commentato le parole di Conte a ogni diretta. Quasi sempre ho concluso il pensiero con sguardo divertito, perché le mie nonne si esprimevano solo in dialetto stretto, e il dialetto si sa non è mai molto generoso di mediazioni e diplomazia.

Non nascondo di aver ringraziato che siano andate prima di questo tempo metafisico. Di aver loro risparmiato la distanza e il tempo dell'attesa. 
Le mie nonne sono due donne che hanno aspettato tutta la vita il rientro a casa dei propri figli, migrati a 800 km di distanza con la promessa del ritorno. Invece non sono mai tornati, stabilmente intendo. Aspettavano Pasqua e l'estate per riabbracciare i propri ragazzi e godere di quella che è stata per lungo tempo l'unica nipotina. E in un'epoca come questa avrebbero sofferto del clima sospeso, del non sapere quando e se.

La più anziana delle due, quella paterna, aveva un attaccamento morboso alla Terra. Spesso non la si trovava in casa, perché nell'aia a zappare o a tagliare l'erba con il falcetto, in un'epoca in cui tale strumento era superato per ideologia e tecnica; per lei zappa e falcetto erano le certezze, la guida, la filosofia di una vita semplice e povera, ma che rispettava tempi e modi di Madre Natura. 
L'altra, quella più giovane, viveva di relazioni. Davanti casa c'era il suo quartier generale, dove si custodivano confidenze, pettegolezzi allegri, pensieri impegnati e disimpegno. Si sbucciavano le patate, si pulivano le fave e si setacciavano i fagioli. E si cantava. In una sintesi perfetta che si muoveva tra tempo e spazio e forse anche in una forma primordiale di politica. Poi c'erano le battute sagaci di mia bisononna che riuscivano a dare una lettura perfetta e lucida della realtà. 

La prima, quella più anziana, forse non si sarebbe nemmeno accorta del lockdown, se non nei giorni di Pasqua, giorni in cui avrebbe preteso ugualmente la presenza dei due figli e rispettive nuore, perché le feste comandate erano un obbligo a cui non ci si poteva sottrarre, un dovere riconosciuto ufficialmente da quella che era la mentalità patriarcale del mondo rurale della Maiella.
La seconda, quella più giovane, avrebbe organizzato un piccola comunità tra le vicine (ho imparato da lei che spesso le decisioni importanti le prendono le donne, e per questo mi correggo dicendo che da quelle parti la famiglia segue una linea matriarcale) in una dimensione di mutualismo naturale e scontato, perché lei aveva subito la guerra e lo sfollamento e il marito disperso da giovanissima. Una bambina, diceva sua madre, che riceveva le visite della suocera scendendo dall'altalena. 

Ho pensato a loro ogni giorno perché è stata la narrazione di un tempo antico, attraverso il loro sguardo, (quello che ti resta impresso nel sangue, quando chi ami se ne va) a indicarmi la via in questi 55 giorni e forse qualcuno di più.  
Ho ascoltato il tempo, ho misurato lo spazio e ho affinato l'olfatto. Ho goduto la casa e il giardino come mai avevo fatto. Ho cucinato. Ho condiviso. Ho litigato e mi sono rappacificata. Ho cantato, ho nutrito l'anima di pensieri e di note. Ma  in una dimensione diversa. Non posso dire nuova, ma semplicemente ritrovata. Ritrovata perché sono intimamente convinta che così dovrebbe essere sempre. 

E adesso mi dicono che tutto questo finirà, che piano piano la vita prepotente si riprenderà il ritmo. E invece no, io non sono pronta: primo perché non è tempo, non siamo ancora al sicuro; in secondo luogo perché non voglio perdere quanto di buono ne è uscito da questa emergenza fantascientifica. 
All'inizio mi ero detta che qualcosa avremmo imparato, l'auspicavo. Ma a sentire il rumore intorno, ho l'impressione che si siano acutizzate le brutture di prima: i prepotenti sono più prepotenti in nome del mercato, gli irresponsabili più irresponsabili in nome della produzione, i superficiali ancora più superficiali in nome di una normalità che deve tornare. 
La normalità che io cerco è forse la straordinarietà di una vita che è unica e si moltiplica nella reciprocità e in quel mutualismo che mi mostrava mia nonna. 
Quella normalità di una Natura che si è ripresa il suo spazio, la normalità delle relazioni vere che si cercano al di là del tornaconto, dei rapporti autentici senza il giudizio e lo stigma. 

Le mie nonne queste cose le sapevano e inconsapevoli le declinavano nelle loro esistenze, in una forma di spiritualità atavica che in questo tempo, anche quando la ritroviamo, non ce la sappiamo tenere. Forse la chiave sarebbe recuperare il senso profondo che nasconde la parola Responsabilità, in una dimensione in cui so prendermi cura del mio prossimo almeno quanto di me stesso.