lunedì 4 luglio 2022

Per una comunità che sappia ritrovare i propri Ragazzi



Perché i ragazzi si perdono? Oggi si dice per colpa della pandemia che ha modificato i paradigmi e azzerato le motivazioni. Ma non sarà invece che la pandemia ha semplicemente messo una lente su un fenomeno, che ha radici lontane nel tempo e nelle storie che hanno preceduto queste generazioni?

Sul sito ufficiale delle prove' invalsi si legge che le cause della dispersione sono diverse e ben definite in categorie come fattori ascritti, fattori di contesto, e fattori individuali. Ma qualcosa non mi convince del tutto; forse sarebbe più opportuna una unica voce che possa afferire al concetto di responsabilità collettiva.
Nel documento di studio dell'autorità garante per l'Infanzia e l'Adolescenza si ribadisce che la dispersione è un fenomeno complesso da affrontare con occhio pluridisciplinare a partire dai primi anni di vita dei bambini, ma si precisa altresì che "la dispersione scolastica coinvolge [...] non solo la vita sociale di bambini, degli  adolescenti e dei giovani, ma anche quella delle comunità in cui vivono" Inoltre le politiche di contrasto alla dispersione scolastica, se pure con forme diverse, risalgono già alla fine degli anni '90. 

La comunità dovrebbe accogliere, proteggere e evitare traumi. Il concetto di comunità riporta a tutti gli attori che sin da bambini incontriamo sul nostro cammino dai docenti agli amici, dagli educatori agli allenatori, oltre che alle famiglie e alle figure politiche. Figure, che se guardate dall'alto, come riprese in una  panoramica,  appaiono complementari e sinergiche al punto da immaginare soltanto conseguenti azioni di successo. Invece i dati ci dicono altro, raccontandoci di una sotto-comunità, quella dei neet che hanno perso la bussola  e forse anche la speranza. E' lo stesso acronimo a togliere loro fiducia identificandoli come nè una cosa, nè l'altra, di fatto espropriandoli anche di qualsiasi potenziale interesse. 
Sono ragazzi usciti dal circuito scolastico e formativo e mai entrati in quello professionale, ma spesso è stata la scuola stessa che non li ha capiti, li ha mortificati, li ha demotivati. 
Di fronte alle biografie di questi ragazzi si ha sempre la sensazione di una ingiustizia, di aver perso ancora prima che loro, il senso vero del mestiere di insegnante, di aver perso di vista l'obiettivo. 
I loro racconti sono ricchi di non sono capace, senza che mai nessuno abbia saputo  controbattere a così tanta convinzione. Quasi tutte le storie sono accumunate da un'esperienza di non accoglienza, dove la comunità educante è venuta meno al suo ruolo. 

Si guarda al fenomeno della dispersione partendo dal punto di vista degli adulti, attenti al cosa stanno perdendo i ragazzi che fuoriescono dal circuito scolastico; ma se provassimo a cercare cosa la società sta perdendo rinunciando a quei ragazzi, forse si sperimenterebbero strategie nuove.  Si troverebbero probabilmente strade alternative per mettere in luce competenze, che possono essere indicate dagli stessi protagonisti. Ma è necessario saperle riconoscere. Identificarne le caratteristiche per saperle valorizzare e capitalizzare è una vera e propria competenza, un mestiere, di cui la nostra società avrebbe bisogno. 


Dire che la scuola è autoreferenziale è riduttivo, perché nasconde comunque un atteggiamento di chiusura da parte di chi dall'esterno pensa di poter applicare dei correttivi ad un mondo a volte obsoleto, o non rispondente alle caratteristiche di tutti. La scuola, quale parte della comunità garante dell' educazione dell'individuo a tutto tondo, dovrebbe essere la stazione centrale di tutto il viaggio, luogo da cui partire, arrivare e ripartire; ma spesso non è così, perché sono gli incontri che si fanno in viaggio, il clima che si trova nelle varie mete a fare la differenza. L'impressione che si ricava dalle storie dei ragazzi che si sono persi è sempre costantemente quella di chi non ha incontrato empatia e giornate di sole ventilate. Di chi non ha incontrato i professionisti giusti. 

Per essere insegnanti è necessaria una laurea che comprenda un pacchetto di crediti ad hoc per la docenza, ma nessun concorso misurerà la capacità di accogliere e di guardare oltre le difficoltà di apprendimento, nessuna prova sarà in grado di valutare quanto si sia bravi a presidiare i propri ragazzi per aiutarli a scovare le proprie attitudini, a superare debolezze e fragilità per trasformarle in punti di forza. Come diceva Quintiliano, il buon maestro nel correggere gli errori non deve essere aspro e offensivo, perché allontanerebbe i discenti da interesse e applicazione.  

L'impressione è che:
  • la scuola non conosca davvero i ragazzi che perde, cosi da non assumersene la responsabilità
  • la politica non conosca la comunità scolastica, sia nella estensione di chi impara, sia nella forma di chi dovrebbe insegnare, ma solo nella forma di numeri e statistiche.  Così non se ne assume la responsabilità 
  • il mondo del lavoro, pensando quasi ed esclusivamente al profitto non abbia un vero interesse a indagare le ragioni di chi si allontana dalla formazione, piuttosto l'atteggiamento è quello giudicante di chi fa prima a dire che le nuove generazioni non hanno voglia di lavorare a fronte di paghe da miserabili. La responsabilità viene attribuita quindi ai ragazzi stessi, vittime di un vortice di schiaffi morali e danni materiali 
  • le famiglie non sappiano andare oltre la frustrazione causata dal giudizio di una comunità che dovrebbe essere rete di protezione, ma che da tempo viene meno al suo ruolo 
Se solo li si sapesse guardare questi ragazzi, si troverebbero delle piccole chiavi di accesso verso una nuova modalità educativa, di comunità appunto. Come il pedagogo nell'antica Grecia era lo schiavo che accompagnava il bambino nel suo percorso verso la scuola, aiutandolo anche operativamente nelle attività di apprendimento, dovremmo immaginare una società in cui un po' tutti accompagnano i ragazzi nella loro formazione, aiutandoli a visualizzare la loro futura identità sociale e professionale; una comunità che si accorga di loro e che ne sappia cogliere le caratteristiche, al di là di stereotipi e narrazioni ufficiali e ordinarie; una comunità che sappia avere un'ottica ecologica nella promozione della partecipazione e il coinvolgimento, in evoluzione verso la promozione della giustizia sociale e il concetto di comunità competente

I ragazzi si perdono perché collettivamente non abbiamo ancora saputo analizzare i loro bisogni, al di là delle apparenze e cosi non siamo ancora in grado di mobilitare le giuste risorse. Andare oltre le statistiche, approfondire le storie, le passioni, i sogni e anche i mancati progetti, è forse l'unica via, faticosa, ma efficace per ritrovarli. 

La creatività non si trasmette. Ma ognuno, incontrando l'occasione di poterla sperimentare, può accendersene. 
Danilo Dolci

Immagine da storicang.it