martedì 30 giugno 2020

L'educazione è cosa del cuore

Nel corso del tempo ho provato a raccontare in diverse maniere che c'è un mondo quasi sconosciuto, ma un mondo direi necessario. 
Lo so che state per dire: eccola qui, la solita storia, la solita fissa, adesso ci parla dei ragazzi del fare

Fuocherello! 



Vi parlo di chi quotidianamente a questi ragazzi dedica le proprie lezioni, di chi ha deciso che la cura è didattica e l'alternativa la pedagogia. 
I miei colleghi e le mie colleghe sono maestri e maestre nel prendere le strade più amene, quelle che sono state abbandonate in virtù delle tangenziali, quelle che continuano a passare nei villaggi di montagna e nelle frazioni di campagna. 

E' di loro che oggi voglio parlare: i formatori. 

I formatori e le formatrici sono quelli che hanno rinunciato a una identità riconosciuta dalla società, preferendo le smorfie dei parenti e conoscenti che alla domanda che mestiere fai, la risposta non la comprendono. E quando all'ennesimo tentativo capiscono che non sono nemmeno dipendenti di scuole private, gettano la spugna, sintetizzando che tanto non sono insegnanti. 

Ecco parliamo del loro mestiere. 

In questi mesi si sono trovati a reinventare una professione che di identità ne ha mille, ma di strumenti apparentemente uno solo: la relazione. 
In questo lungo periodo di formazione a distanza la relazione è stata faticosissima per tutti, ma per chi è abituato al fare, per chi è abituato a interpretare il linguaggio non  verbale per poter comprendere meglio non detti e vissuti, è stato il pensiero fisso quotidiano. 

La didattica on line è stata bersagliata di critiche e abbiamo sentito ripetere che non è scuola. Io capovolgo l'approccio: la scuola non può essere solo quella a distanza e  un pc non sostituisce il laboratorio. I ragazzi del fare lo sanno bene e da subito si è sentita l'urgenza di trovare un modo per fornire loro strumenti e metodi nuovi. Quello che è successo non è davvero la formazione professionale come deve essere e come i ragazzi se l'aspettavano quando hanno scelto il fare, ma sicuramente potrà diventare quel quid che può sostanziare quel fare cosi prezioso. 

I miei colleghi hanno saputo inventare e riprodursi in ruoli e metodi che nessuno prima ci aveva insegnato. Per dirla meglio, non eravamo stati preparati se non alla cattedra, al laboratorio, consapevoli che più che  in un registro o in un libro la nostra forza è racchiusa nell'empatia. 
E' stata proprio l'empatia e la voglia di arrivare ad ognuno dei nostri ragazzi a darci la forza di superare la fatica di una didattica che non avrebbe mai soddisfatto i nostri desideri, le nostre convinzioni e i bisogni degli allievi. 

Questa esperienza di tempo sospeso è qualcosa che resterà impressa nei nostri ricordi, come un tatuaggio e sarà difficile tornare al prima. Tutto del futuro che ci aspetta subirà il confronto con il prima. Un prima che non era perfetto, ma che a noi ora sembra persino da esempio, un riferimento per ritrovare una sperata normalità; ma forse la normalità assumerà significati nuovi, diversi e al momento imprevedibili. La formazione professionale ha sempre saputo adattarsi a storie e convenzioni nuove, perché la politica le ha sempre giocato qualche scherzo. 

A volte mi sorprendo a pensare alle gite di classe come esperienze troppo lontane per essere replicabili e mi chiedo come potranno sopravvivere degli studenti che spesso certe esperienze le vivono solo grazie alla scuola. Poi mi dico che i miei colleghi sono talmente speciali che riusciranno a inventare un mondo formativo nuovo, perché in emergenza hanno fatto quasi miracoli. Un po' a modo loro sono stati degli eroi: hanno contenuto ansie, controllato distanze e accompagnato dispersi. Hanno continuato a far sentire dei ragazzini distanziati e soli parte di un gruppo, ogni giorno, nonostante difficoltà tecniche e psicologiche, nonostante frustrazioni e impotenze. 

Si è parlato tanto di scuola, di rientro e di assenza delle politiche scolastiche, ma mai, e quando dico mai c'è in me la volontà di assolutizzare il concetto, si è menzionata la formazione professionale. Non si pensa che tra gli adolescenti c'è una buona fetta che ha indirizzato i propri interessi verso delle professioni  e per impararle studia, frequenta, si rapporta con insegnanti e professionisti. Questa a mio avviso è una grave mancanza, perché è come se un corpo non si accorgesse di una sua parte, come se un braccio non sapesse di avere la mano.  Una comunità non può fare a meno degli artigiani, proprio per questo una comunità che non riconosce il giusto ruolo a chi questi artigiani forma è monca. 

I formatori provano a costruire autostime distrutte o inconsce, attraverso ponti di cultura e saperi e gli allievi, attraverso un mutuo gioco di fiducia restituiscono consapevolezza che li accompagna verso l'età adulta. E' un processo che mi affascina ogni anno, ogni volta che saluto un ragazzo o una ragazza al termine del suo colloquio di esame. Una esperienza che lascia il segno ogni volta in modo diverso, unico e irripetibile, perché unico e irripetibile è l'essere umano e l'alchimia che crea nella mescolanza delle esperienze. Eppure mi attraversa allo stesso tempo la frustrazione di non saperlo dire al mondo nel modo giusto, di non saper riconoscere a questa fetta di giovani donne e giovani uomini la giusta importanza. 


Forse aveva ragione don Bosco a dire che l'educazione è cosa del cuore



venerdì 19 giugno 2020

In bocca al lupo ragazzi!



Avreste dovuto cucinare, mescere, accogliere.

Per anni vi abbiamo riempito la testa di informazioni utili a sostenere una settimana d'esame [che manco la maturità!]; un esame percepito lungo una vita, per voi che amate il fare.

Mi ritrovo a cercare le parole per dirvi che ci saremo come sempre ci siamo stati, ma questa volta le parole giuste non le trovo. Mi manca tutto.

Mi mancheranno gli sguardi di sottecchi mentre la commissione passa in cucina, mi mancheranno i movimenti controllati di quando fate accomodare gli ospiti a tavola, mi mancherà la faccia compiaciuta con il vostro piatto decorato tra le mani.
Mi mancherà sentirvi recitare le etichette dei vini che state per servire e l'intonazione maccheronica di un discorso in lingua straniera.
Sentirò la mancanza di quel groppo in gola che vi fa apparire meno sicuri e spavaldi del solito e che a noi formatori fa dimenticare le arrabbiature passate.

La mancanza è stato il "sentire" che ci ha abitato di più negli ultimi mesi.

Abbiamo pensato a tutti i nostri ragazzi, uno per uno, ma a voi che state per fare l'esame un po' di più. 
Vi si sta togliendo l'esperienza per la quale avete lavorato dal primo giorno in cui avete messo piede in laboratorio, i giorni che vi abbiamo fatto sospirare come la resa dei conti, la somma di tutti i sorrisi e le lacrime, l'impegno e la pigrizia.

Abbiamo trovato insieme un modo nuovo per fare didattica, anche un po' divertente forse, e grazie a voi che siete stati tanto generosi da non tirarvi mai indietro a ogni proposta strampalata, chi verrà dopo  troverà probabilmente un po' di fluidità in più. 
E' stata una didattica strana, nuova, di cui sicuramente salveremo qualcosa; il prossimo anno potremo invitarvi come special guest nelle classi prime per mostrare dal vivo quello che sapete fare e indicare loro quale sia la strada. 

Vi siete trasformati, siete cresciuti e la resilienza è diventata la vostra sostanza. Chi era pigro ha provato a stringere i tempi della sua pigrizia, chi era ombroso ha provato a essere sorridente e chi era permaloso ha trovato un po' di autoironia, perché la distanza ha il pregio di tenere a bada l'impulso. I creativi sono diventati ancora più ricchi di colori e i precisi ci hanno dato tante soddisfazioni.

Tanti di voi sono pronti per andare in tv a forza di video ricette e presentazioni multimediali!

Ci resterà il cruccio di non avervi visto abbastanza, nascosti in quella vergogna adolescenziale che "la telecamera è rotta prof". Così da lunedì correremo il rischio di trovarvi diversi: uomini e donne a cui questi mesi hanno lasciato il segno.
Forse non vi riconosceremo, o forse si, perché in questi mesi ci avete detto tanto di voi, ognuno a modo suo, ognuno con le sue particolarità, ognuno con i suoi silenzi.

Questa esperienza così paradossale vi ha tolto tutto della scuola, perchè per voi scuola non significa "libri", ma "mani". E le mani ve le hanno imbrigliate, vi hanno accomunato a tutti gli altri studenti, senza considerare che una professione si impara provandola, agendola.
Ma vi siete adattati e adesso state arrivando alla meta. Una meta che sa di scorciatoia per qualcuno, perché privato anche dello stage, il momento più sospirato di tutto il percorso. Questo è un altro dei nostri crucci: non essere riusciti a proteggervi abbastanza. Ma un'emergenza è un'emergenza e non potevamo prevederlo, nonostante tutti i discorsi sul non rimandare a domani quel che puoi fare oggi con cui vi abbiamo annoiato. Mannaggia anche i prof. sbagliano! e anche noi ci siamo fatti trovare impreparati, ma abbiamo imparato tantissimo

Una promessa ve la voglio fare: mi impegnerò al massimo per dire a tutti quanto lavoro c'è dietro un bancone del bar, quante lacrime a volte si nascondono nelle cucine e quante suole delle scarpe si consumano in una sala di ristorante. Quanta professionalità in un mestiere fatto per farci stare bene, per regalarci attimi di leggerezza che in questi mesi ci sono mancati così tanto. 

Cercate di non mortificare i vostri talenti, accuditeli e fateli diventare vocazione. E' la vocazione che fa la differenza e che vi renderà indispensabili agli altri. 

In bocca al lupo ragazzi!

La Bianco

Immagine https://www.nanopress.it/cultura/2015/11/02/perche-si-dice-in-bocca-al-lupo-e-si-risponde-crepi-il-lupo/96687/



domenica 3 maggio 2020

La Responsabilità della normalità


In questo periodo di quarantena ho pensato ogni giorno alle mie nonne. Ogni giorno ho pensato a come potessero vivere un momento simile e a come avrebbero commentato le parole di Conte a ogni diretta. Quasi sempre ho concluso il pensiero con sguardo divertito, perché le mie nonne si esprimevano solo in dialetto stretto, e il dialetto si sa non è mai molto generoso di mediazioni e diplomazia.

Non nascondo di aver ringraziato che siano andate prima di questo tempo metafisico. Di aver loro risparmiato la distanza e il tempo dell'attesa. 
Le mie nonne sono due donne che hanno aspettato tutta la vita il rientro a casa dei propri figli, migrati a 800 km di distanza con la promessa del ritorno. Invece non sono mai tornati, stabilmente intendo. Aspettavano Pasqua e l'estate per riabbracciare i propri ragazzi e godere di quella che è stata per lungo tempo l'unica nipotina. E in un'epoca come questa avrebbero sofferto del clima sospeso, del non sapere quando e se.

La più anziana delle due, quella paterna, aveva un attaccamento morboso alla Terra. Spesso non la si trovava in casa, perché nell'aia a zappare o a tagliare l'erba con il falcetto, in un'epoca in cui tale strumento era superato per ideologia e tecnica; per lei zappa e falcetto erano le certezze, la guida, la filosofia di una vita semplice e povera, ma che rispettava tempi e modi di Madre Natura. 
L'altra, quella più giovane, viveva di relazioni. Davanti casa c'era il suo quartier generale, dove si custodivano confidenze, pettegolezzi allegri, pensieri impegnati e disimpegno. Si sbucciavano le patate, si pulivano le fave e si setacciavano i fagioli. E si cantava. In una sintesi perfetta che si muoveva tra tempo e spazio e forse anche in una forma primordiale di politica. Poi c'erano le battute sagaci di mia bisononna che riuscivano a dare una lettura perfetta e lucida della realtà. 

La prima, quella più anziana, forse non si sarebbe nemmeno accorta del lockdown, se non nei giorni di Pasqua, giorni in cui avrebbe preteso ugualmente la presenza dei due figli e rispettive nuore, perché le feste comandate erano un obbligo a cui non ci si poteva sottrarre, un dovere riconosciuto ufficialmente da quella che era la mentalità patriarcale del mondo rurale della Maiella.
La seconda, quella più giovane, avrebbe organizzato un piccola comunità tra le vicine (ho imparato da lei che spesso le decisioni importanti le prendono le donne, e per questo mi correggo dicendo che da quelle parti la famiglia segue una linea matriarcale) in una dimensione di mutualismo naturale e scontato, perché lei aveva subito la guerra e lo sfollamento e il marito disperso da giovanissima. Una bambina, diceva sua madre, che riceveva le visite della suocera scendendo dall'altalena. 

Ho pensato a loro ogni giorno perché è stata la narrazione di un tempo antico, attraverso il loro sguardo, (quello che ti resta impresso nel sangue, quando chi ami se ne va) a indicarmi la via in questi 55 giorni e forse qualcuno di più.  
Ho ascoltato il tempo, ho misurato lo spazio e ho affinato l'olfatto. Ho goduto la casa e il giardino come mai avevo fatto. Ho cucinato. Ho condiviso. Ho litigato e mi sono rappacificata. Ho cantato, ho nutrito l'anima di pensieri e di note. Ma  in una dimensione diversa. Non posso dire nuova, ma semplicemente ritrovata. Ritrovata perché sono intimamente convinta che così dovrebbe essere sempre. 

E adesso mi dicono che tutto questo finirà, che piano piano la vita prepotente si riprenderà il ritmo. E invece no, io non sono pronta: primo perché non è tempo, non siamo ancora al sicuro; in secondo luogo perché non voglio perdere quanto di buono ne è uscito da questa emergenza fantascientifica. 
All'inizio mi ero detta che qualcosa avremmo imparato, l'auspicavo. Ma a sentire il rumore intorno, ho l'impressione che si siano acutizzate le brutture di prima: i prepotenti sono più prepotenti in nome del mercato, gli irresponsabili più irresponsabili in nome della produzione, i superficiali ancora più superficiali in nome di una normalità che deve tornare. 
La normalità che io cerco è forse la straordinarietà di una vita che è unica e si moltiplica nella reciprocità e in quel mutualismo che mi mostrava mia nonna. 
Quella normalità di una Natura che si è ripresa il suo spazio, la normalità delle relazioni vere che si cercano al di là del tornaconto, dei rapporti autentici senza il giudizio e lo stigma. 

Le mie nonne queste cose le sapevano e inconsapevoli le declinavano nelle loro esistenze, in una forma di spiritualità atavica che in questo tempo, anche quando la ritroviamo, non ce la sappiamo tenere. Forse la chiave sarebbe recuperare il senso profondo che nasconde la parola Responsabilità, in una dimensione in cui so prendermi cura del mio prossimo almeno quanto di me stesso. 









martedì 7 aprile 2020

Il vuoto della distanza



In questi giorni l'attenzione è puntata sulla bravura degli insegnanti ad adattarsi all'emergenza. Tanti occhi sono puntati sulla Scuola, come se improvvisamente ci si fosse accorti dell'importanza che quest'istituzione potrebbe avere in una società. [Il condizionale non è da distrazione.] 

I segni che distinguono la professionalità di un docente non sono dati dalla capacità di accogliere i propri studenti in un tempo diverso dal prima, ma da quanto ci si sappia adeguare alla didattica a distanza. Si è dei bravi insegnanti perché si sanno scegliere saperi da pubblicare e piattaforme da abitare, in uno spazio che è metaforico, ma tanto reale quanto pressante. La bravura dei docenti non sta nel saper riconoscere i bisogni dei suoi ragazzi, ma nell'abilità che dimostrano nel trasformarsi in divulgatori, affinchè a chiunque sia resa riconoscibile l'evoluzione del ruolo [non l'autorevolezza], la prontezza nel curare contenuti secondo modelli nuovi. Curare contenuti: il buon Don Milani vorrebbe questo verbo scritto con la maiuscola, ma la Cura chiede vicinanza. La definizione della didattica a distanza è precisa, antitetica alla vicinanza che reclama il linguaggio non verbale, l'arma che rende il mestiere dell'insegnante così prossimo a quello dell'attore, quello stesso linguaggio che ti fa entrare nei cuori, prima ancora che nei cervelli, permettendo ai discenti di innamorarsi del sapere, grazie alla capacità di stare in aula come mai nessun altro allieva avevo incontrato prima.
La Cura ti guarda negli occhi, cerca le ombre. La Cura sa riconoscere gli ultimi, i distratti, quelli sul pezzo e le eccellenze, che a dirla tutta, qualche volta possono confondersi con le disabilità. La Cura porta alla meta tutti, ma non in egual misura e con gli stessi mezzi. Tutti vincono. 

Invece in questa corsa stiamo perdendo tutti. Gli insegnanti perdono il mestiere, nel reale pericolo di vederlo mutato, prima ancora che riconosciuto;  i ragazzi perdono l'arricchimento del confronto, della ricerca e forse anche dell'errore, i genitori perdono equilibrio nell'ansiosa rincorsa al risultato, all'evidenza, alla messa alla prova.
Come mi diceva qualche giorno fa un'amica insegnante, si rischia di trasformare la didattica in un videogioco, in una gara a quiz. Ci si ritrova a distribuire nozioni come le carte di una partita a scopa, per dare l'idea che si sta andando avanti, che non li si lascia soli. 
E invece non sono soli, sono isolati. 

In tutta questa discussione nazionale ci si è distratti dimenticandosi  una categoria di studenti, i ragazzi del fare, quelli che hanno scelto di mettere in campo altre intelligenze, che hanno scelto le mani, prima ancora dei libri. Quelli di cui non parla mai nessuno, perchè in Italia quasi non c'è  un sistema che li consideri, tanto che ogni Regione si organizza come meglio crede. Quelli per cui, anche se in età di obbligo scolastico, il Ministero mette poche risorse e per il resto ci pensa il Fondo Sociale Europeo. Quelli che spesso nelle statistiche nemmeno compaiono. Quelli che coincidono con meno strumenti, meno consapevolezza, più difficoltà. 
Questi ragazzi sono  gli stessi che trovate quando andate a prendere un aperitivo, quando fate la messa in piega o portate la macchina dal meccanico. Loro avevano scelto una scuola professionale, pratica, in primis perchè seduti al banco, fermi, non ci volevano stare, poi magari si sono anche scoperti talenti di una professione che avevano avvicinato quasi per caso. Avevano imparato a coltivare dei sogni, che gli avevamo insegnato a far diventare progetti. Ora si è arrestato tutto, in una dimensione che paradossalmente il mondo definisce loro. Ci siamo raccontati un storia che non aderisce ai fatti: non sono tutti nativi digitali, perchè banalmente se non puoi permetterti i giga e gli strumenti, alla fine di tutta questa storia non avrai imparato come gli altri, non avrai raggiunto gli stessi obiettivi e i progetti saranno tornati ad essere sogni, troppo grandi per dar loro concretezza. 
Gli insegnanti avranno curato contenuti, ma non il loro bene più prezioso che sono i ragazzi. 

Quando finirà questa emergenza e tornerete al bar, dalla parrucchiera o dal meccanico pensateci, pensate al vuoto che ha creato la distanza, pensate alla didattica che si è persa nella mancanza di uno sguardo e nella mancanza della parità sociale





mercoledì 11 marzo 2020

Ragazzi cari


Ragazzi cari,
sono ore convulse. Ore in cui si rincorrono notizie e emozioni. Ore in cui noi formatori stiamo lavorando forsennatamente per capire lo strumento giusto, la parola più azzeccata per comunicare con voi.

Non è semplice da un giorno all'altro cambiare approccio, lasciare che siano solo le parole scritte a parlarvi; proprio a voi che le parole piacciono così poco e che scegliete sempre e comunque i fatti. Le opere, come dicevano gli antichi, sono la vostra cifra.

Avete scelto una scuola professionale apposta, mica per stare sui libri. E invece in questi giorni vi chiediamo di stare fermi, chiusi in casa, senza la possibilità di un bella raga e di arrivare in ufficio da me in puntuale ritardo con una serie di scuse a cui nemmeno voi credete intimamente.
Improvvisamente le alzate di voce, i toni scomposti, i compiti non fatti, lo stress di una campanella che suona sempre nel momento sbagliato ci mancano, e forse mancano anche a voi.

Avrei voluto ogni giorno guardarvi negli occhi e ripetervi fino alla nausea tutte quelle raccomandazioni, che in questo momento non basta siano i vostri genitori a farvi. Tutti avremmo voluto farvi imparare a memoria che in questi giorni non possiamo stare stretti tra noi, che non è sano passare un giorno al centro commerciale [già lo sapete che per me non è sano mai!], che andare a bere il chupito in queste sere è più idiota di tutte le altre volte.

Avrei voluto toccarvi una spalla, un braccio, una mano, la guancia per dirvi in un buffetto tutte le parole che il dizionario contiene al significato di tranquillità. Purtroppo per il momento non è possibile e allora raccolgo le energie per starvi vicino in un modo nuovo.

Persino i più tecnolesi di noi si stanno attrezzando per riuscire a comunicare con voi, per darvi materiale e strumenti che vi stuzzichino e che possano raggiungervi ovunque.

Da questa storia usciremo tutti diversi e migliori, ne sono sicura.
Stiamo imparando, forse un po' meno sui libri, ma stiamo imparando di empatia e resilienza. Sapete cosa vuol dire? Che stiamo imparando ad adattarci, a cambiare idea con umiltà; stiamo imparando che questa volta tocca a noi e così forse quando incontreremo qualcuno con fortune e sfortune diverse dalle nostre, sapremo essere accoglienti e tolleranti, in nome di una malasorte ( sfiga come dite voi), che se anche in misura e forma  diversa, abbiamo già vissuto. 
È difficile dirvelo, pensando agli occhi girati in sù  e ai sospiri di fastidio, che normalmente si produce in aula, ma abbiate cura di voi. Abbiate cura della vostra anima, non lasciatela in balia del brutto e dell'arroganza.

Seguiteci, anche se da lontano.

Provate e fidarvi di noi. Noi ci fidiamo di voi. Sappiamo che non uscirete per preservare anche la salute di noi più grandi e per preservare un sistema sanitario di cui avremo bisogno tutti, voi come noi. 
Cercheremo di fare il nostro lavoro anche da qui, sebbene il qui sia imprecisato e non troppo fisico, sebbene ci mancheranno reciprocamente sguardi e intonazioni. (Che poi dai su, quelli vi sono rimasti impressi no?!)

Diamoci la mano ragazzi. Anche se solo virtualmente teniamoci stretti e al ritorno saremo tutti più preziosi. 

Vi abbraccio forte, voi e le vostre famiglie!
La Bianco


domenica 8 marzo 2020

Recuperiamoci

Abbiamo evitato ai nostri figli le guerre guardando a quelle degli altri con la distanza del mero scambio politico. 
Abbiamo risparmiato alle ultime generazioni la fame, pensandola come colpevole dimostrazione di un'inettitudine sociale e non come l'esito di un sistema economico in cui qualcosa non funziona. 
Abbiamo gridato odio a chi ci mostrava la propria disperazione, facendo a gara a trovare disgrazie più grandi in nome di una civiltà, forse persa per sempre. 
Abbiamo puntato i piedi per comunicare l'incapacità a ricoprire ruoli di potere, pensando di dimostrare il contrario. Abbiamo dato alla prepotenza il compito di nascondere inadeguatezza. 
Abbiamo compensato la nostra assenza con strumenti e beni con chi amiamo o chi dovremmo amare. 
Abbiamo rinunciato alle cose semplici, alla ricchezza delle parole, alle potenzialità degli abbracci (che fossero fisici o metaforici). 

Abbiamo, e non siamo più. 

Non siamo più capaci di fermarci, di recuperare emozioni e relazioni. 
Non siamo empatici, prede di un individualismo, che ci impone di riempire centri commerciali nonostante sia chiaro a tutti  che è pericoloso. 
Non siamo fiduciosi, sicuri che chiunque ci stia fregando, che qualsiasi scelta fatta nasconda sempre un secondo fine.
Non siamo riflessivi; questo tempo così paradossale potrebbe essere una grande occasione per recuperare creatività e forme inedite. 
Non siamo disponibili a provare strutture organizzative nuove, anche economiche, per generare e non consumare. 
Non siamo pronti al confronto con realtà diverse che possano mettere in discussione le nostre certezze e le nostre quotidianità.

Ci siamo persi l'Essere,  badando solo all'Avere

Recuperiamoci. 



martedì 3 marzo 2020

Ci siamo ammalati tutti

Abbiamo vissuto una settimana strana in cui alcune certezze ci hanno guidato nelle cose importanti della quotidianità: la scuola, il lavoro, la spesa, il tempo libero, lo sport. Tutti siamo stati guidati dal male del nostro tempo, la tuttologia nella sua specialistica branca del pressapochismo.

Ci siamo ammalati tutti. Chi di superficialità, chi di ipocondria, chi di smania di notizia ( nel doppio senso dal volerla cercare al volerla dare).
Ci siamo ammalati di individualismo e di diffidenza. 

È stato detto tutto e il contrario di tutto senza lasciare diritto di replica alla coerenza. Tanto da chiudere alcuni settori della vita pubblica, ma lasciarne altri completamente alla mercé del non detto. 
Cosi le scuole pubbliche hanno chiuso le porte a studenti e personale, ma la formazione professionale, che sempre di apprendimento si occupa, le porte le ha aperte solo al personale. ( che poi un contesto formativo senza allievi di fatto non perde il suo senso più profondo?)
Le palestre comunali si sono fermate, ma quelle private hanno compiuto la loro missione (come se i flagelli riconoscessero le tipologie di utenze)
Per non parlare delle corse nei centri commerciali, perché lo sanno tutti essere luoghi sterili, a riempire carrelli della spesa di roba che nemmeno in guerra ti mangeresti.
Ci siamo anche dimenticati delle Paure degli altri: improvvisamente sono sparite le guerre, i tiranni e le ingiustizie che ci hanno scaldato l'inverno. 

Eppure è successa una specie di magia: finalmente persino l'operoso nord si è dovuto fermare. Per paradosso proprio chi "la neve alta un metro, ma le scuole aperte, perché io devo lavorare,  mica sono del sud " ha dovuto suo malgrado accettare e adattarsi. Prima con atteggiamento spavaldo e temerario, sprezzante di un pericolo che nel profondo si crede inesistente. Poi, quando il pericolo si è fatto più vicino, più concreto allora è partita la corsa all'amuchina, alle mascherine, alla spasmodica ricerca di dati statistici, che nella migliore delle ipotesi non si sa come interpretare

Nemmeno in questa occasione si è stati capaci di rallentare, di sospenderci. 
Si è guardata l'economia, prima ancora che la salute, in una visione miope che non tiene conto di quanto un sistema di sanità malato possa irrimediabilmente pesare sull'economia globale. 

Poteva essere un momento prezioso per recuperarsi come genitori, come figli, come coppia e perché no...come azienda. Nei momenti di difficoltà ricentrarsi serve per andare oltre, per trovare nuove strade, per fissare nuovi obiettivi, trovare stimoli creativi innovativi. 

Abbiamo scoperto con un bel po' di ritardo che il telelavoro funziona e che no, i lavoratori quando responsabilizzati e fidelizzati non ne approfittano, producono e si spronano. Tuttavia sono stati pochi a poter usufruire di questo servizio, perché le aziende non sono tecnicamente pronte, perché i datori di lavoro non lo sono psicologicamente. 

Eppure il paradosso è che il cittadino medio è iperconnesso nella sua quotidianità, a prescindere dal suo ruolo e dalle sue reali necessità professionali. Cosi che le notizie in questi giorni non avevano tempo di trovare il proprio pubblico, che quelle successive erano già distribuite. Ecco che tutti si sentono autorità. 

Si chiama Covid 19 questa volta, ma per me è accidentale, perché quanto sta accadendo potrebbe delinearsi in altri fenomeni. 
Mentre scrivo non ho un'idea chiara del percorso che farà questa storia, oltre i giorni persi di scuola e i ristoranti vuoti,; ma se la coltre di smog è diminuita a causa della peste del 2020, forse possiamo guardare i dati di questi giorni con un punto di vista nuovo.

Se abbiamo il coraggio di abbandonare le nostre certezze e i nostri paradigmi di egocentrati, forse si sarà più resilienti e capaci di non sprecare le occasioni per riappropriarsi della nostra Umanità, anche nella sua accezione di semplicità.