domenica 28 febbraio 2010

Formazione Professionale: il modello piemontese [le strategie politiche e sociali]

La Regione Piemonte si è data come obiettivo quello di costruire razionalmente una memoria del proprio patrimonio storico nel campo della Formazione Professionale. Ne ha dato rilevanza al seminario " Storia e aspetti socio-pedagogici della Formazione Professionale in Piemonte", contenitore dove sono stati presentati alcuni studi in carico all'Università degli Studi di Torino.

Interessanti gli spunti che hanno reso obbligatoria la riflessione che la tradizione che i santi sociali piemontesi ci hanno lasciato, non può essere dispersa e dimenticata a causa di qualche legislatore distratto o per una politica economica che mira verso altri obiettivi, diversi da quelli relativi al capitale umano.

La formazione professionale piemontese si è sicuramente fondata, almeno alle origini, sul lavoro, l'interpretazione e la vocazione di alcuni santi sociali, quali don Bosco o don Murialdo [solo per citare i più conosciuti], che hanno declinato l'addestramento come tutela dei ragazzi rispetto al penoso mondo di fabbrica cittadino e per poterli inserire nel panorama lavorativo.
Il contesto si può sintetizzare come laboratorio garanzia dell'incolumità spirituale.

A mio parere è molto utile la ricerca intrapresa dal Prof. Grimaldi volta a disegnare un profilo sociologico degli allievi della formazione iniziale piemontese negli ultimi cinque anni.

Esistono alcune realtà, istituti un tempo, agenzie formative ora, che vantano la formazione di maestranze e professionalità di generazioni distanti un secolo e più l'una dall'altra.

Sarà interessante vedere quali altri tasselli si aggiungeranno al puzzle che si sta profilando per dare un volto ad una realtà abbastanza caratterizzante la nostra regione.

L'impegno che mi prendo è quello di dedicare uno spazio costante all'aggiornamento del profilo che si costruirà grazie a questi approfondimenti.

E chissà che gli approfondimenti non aiutino scelte più responsabili e consapevoli da parte di Chi sceglie per tutti.

domenica 21 febbraio 2010

La rivoluzione dell'ascolto


Benasayag dice:
"L'ascolto è la parola magica"

L'attenzione è spesso posta sulla questione delle difficoltà comunicative tra generazioni, in particolar modo con i giovani del nostro tempo.

Alla scuola, agli educatori si chiede forse troppo implicitamente di riempire il vuoto lasciato dalla società e spesso dai contesti famigliari.
Per rispondere ai nuovi bisogni nozioni e saperi non sono più sufficienti, per questo la scuola deve guardare a nuovi contenuti e a nuovi strumenti. Forse basterebbe concentrarsi sulle modalità.

Nelle modalità ci sta anche solo il puro ascolto, il porsi in posizione di apertura nei confronti dei ragazzi, dell'altro.
E' l'ascolto dell'altro che permette di coglierne le sfumature e i punti di forza. Senza scendere in un'analisi psicologica di chi si ha di fronte, dargli spazio permette di conoscerne gli schemi d'azione, le dinamiche comportamentali, affinchè si possano strategicamente utilizzare a vantaggio del discente.

Conoscere gli schemi d'azione permette di personalizzare gli interventi educativi.

Personalizzare significa cura educativa.
Personalizzare significa trovare insieme all'altro le parole per dire il proprio disagio, la propria difficoltà che sia di apprendimento, che sia esistenziale.

I nostri ragazzi crescono in una società dalle finte trasparenze, dove facilmente si mettono in primo piano le proprie storie e le proprie intimità, ma sempre più con difficoltà si analizzano le proprie fragilità. Non gli si sa dare un nome e per questo non le si può conoscere.

Si è parlato a questo proposito della generazione 20 parole. E' difficile capirsi se non si condividono i codici. Acquisire la consapevolezza che l'evoluzione delle generazioni porta inevitabilmente ad adeguarsi a tempi, spazi ma soprattutto a modalità può essere davvero il segreto per mediare piccoli successi quotidiani.
L'ascolto è il primo passo per la costruzione di un rapporto di fiducia. La fiducia è un processo che passa attraverso l'accoglienza del punto di vista dell'altro, la valorizzazione dei punti di forza, la facilitazione dell'espressione delle difficoltà e delle esigenze specifiche.

A questo punto mi sorge un dubbio: ascoltare può essere rivoluzionario?